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31 anni fa la strage di Capaci: l’attentato che cambiò il volto dell’Italia

di Mirko Cantarella

Il 23 maggio 1992 si è consumata la strage di Capaci. Giovanni Falcone, il giudice più odiato dalla mafia, fu ucciso con 500 kg di tritolo. E 57 giorni dopo toccò a Paolo Borsellino.

Numerose iniziative a Palermo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. All’interno e all’esterno dell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone incontri per commemorare l’eccidio per mano mafiosa del 23 maggio 1992. La premier Giorgia Meloni in collegamento da Roma, mentre il ministro degli Interni Matteo Piantedosi è presente nel capoluogo siciliano insieme a 80 baby sindaci da tutta Italia.

IL FATTO

Avendo constatato che Falcone era isolato tra i suoi stessi colleghi, Cosa nostra tentò una prima volta di pareggiare i conti con il giudice. Cinquanta candelotti di dinamite furono nascosti tra gli scogli vicino alla villa al mare all’Addaura, non lontano da Palermo, che il magistrato aveva affittato per l’estate. L’intenzione era farli esplodere non appena Falcone si fosse concesso un bagno. L’attentato fallì soltanto perché il sicario, il giovane figlio di un boss legato ai Corleonesi, perse il telecomando in mare. Falcone comprese immediatamente che non si trattava soltanto di una vendetta per il maxiprocesso. Era il prezzo per non aver mai smesso di indagare nei segreti della “cupola”. Anzi, ora stava puntando più in alto. Alle relazioni istituzionali di Totò Riina, dunque alla politica, e alle talpe su cui i mafiosi potevano contare all’interno della magistratura, che li avvertivano in anticipo delle mosse degli investigatori. “Io sono segnato nel ‘libro dei cattivi e la condanna nei miei confronti è stata emessa da tempo“, disse al Corriere della Sera il giorno dopo il fallito attentato.

 Venerdì 23 maggio 1992 Falcone e sua moglie, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, atterrarono a Punta Raisi, dove li attendevano le tre auto della scorta, tra cui la Croma bianca. Da lì avrebbero fatto il percorso di sempre, l’autostrada che dall’aeroporto conduce in città. Nelle settimane precedenti Giovanni Brusca e i suoi complici avevano individuato un cunicolo di scarico che passava sotto l’autostrada all’altezza di Capaci. Con il favore della notte avevano stipato il cunicolo con 500 chilogrammi di tritolo. Il detonatore era stato collegato a un telecomando, che Brusca stesso avrebbe azionato da una vicina altura. Per farlo, si era addestrato per giorni, usando l’auto di un complice e un segno di vernice sul guard rail come punto di riferimento.

Una preparazione purtroppo efficace. L’esplosione sollevò centinaia di metri di asfalto, scagliando a distanza la prima auto del convoglio e uccidendo sul colpo Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Mentre la terza auto si salvò, la Croma andò a sbattere con violenza contro il muro di terra e di detriti che si era creato. Giovanni Falcone, che era alla guida, e la moglie, al suo fianco, morirono dopo essere giunti all’ospedale.

L’autista, seduto dietro, si salvò. Nessuno più ora poteva dubitare che le intuizioni e il metodo di Falcone fossero straordinariamente efficaci: erano stati i suoi assassini a confermarlo, una volta per tutte. Riina e i suoi la sera del 23 maggio 1992 festeggiarono la notizia della morte del loro nemico bevendo champagne. Non sapevano che di lì a pochi mesi Riina sarebbe finito in carcere ed entro qualche anno, seguendo la traccia segnata da Falcone, lo Stato avrebbe smantellato la “cupola” dei Corleonesi.

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