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Carmine Pinto: «I giovani vanno via da qui. Necessario fare investimenti»

di Matteo Maiorano

Storia, politica, economia. Un ritratto del Mezzogiorno realizzato da chi, di professione, osserva e studia il mondo di ieri e oggi. Docente di storia presso l’Università degli studi di Salerno, Carmine Pinto discute, sotto il profilo storiografico, di politica, cultura e milizie. Dall’Italia al Messico, dalla Francia alla Colombia passando per la Spagna. Perché la conoscenza, oggi, è diventata più accessibile e pratica. 

Il suo interesse per la storia era maturo fin dall’adolescenza…

«La storia è sempre stata la mia passione, fin da quando ero piccolo. Nella vita mi sono occupato anche di altro, però questa materia ha rappresentato sempre il giusto compromesso tra lavoro, passione e la possibilità di esprimermi socialmente. Una cosa è viverla come un momento di divertimento, qualcosa per esplorare il tempo, diverso quando ti trovi ad insegnarla e svolgi la professione. E’ una grande fortuna per me essere docente, ho la possibilità di fare quello che mi piace, spendendo il mio tempo in qualcosa che realmente mi soddisfa. Nel corso della mia carriera ho lavorato in diverse università, come Parigi, Saragozza, Bogotà e Città del Messico, ma anche in Ungheria. Il lavoro accademico, oggi, è come l’impresa: non esiste più la dimensione locale». 

Lavorare in ateneo è un po’ come farlo in un’industria?

«Oggi cresci se parli ad una platea ampia di persone, migliori se ti confronti con un mondo in continua evoluzione, maturi se hai la capacità, non scontata, di offrire idee, ricerche. Ti sviluppi se esisti a livello globale. E’ una questione di dimensione, il numero sono le persone che ti ascoltano, la dimensione scientifica è il fatto di vivere in un mondo dove tutto è internazionale, si viaggia, ci si muove. Dove le questioni storiografiche sono questioni internazionali».

Da Salerno al resto del mondo: quali le differenze a livello di sviluppo e quali le prospettive del sud rispetto alle altre realtà?

«L’ateneo salernitano è un fiore all’occhiello del Mezzogiorno. Questo è un dato di fatto: per qualità di corsi di laurea, per numero di iscritti, per risultati nelle classificazioni scientifiche ma anche per il tipo di campus esistente. L’ateneo salernitano è una grande realtà nel panorama italiano. Non è facile né scontato. Il problema non è più l’università in sé che funziona, perché è di alto livello. Il problema è il tessuto socio-economico del sud Italia. C’è un problema demografico. La crescita di questo dato è sintomo di ricchezza. Se le persone vengono qui significa che c’è ricchezza, se vanno via il dato tende a rappresentare una realtà povera. L’età media qui è inoltre tremendamente in crescita. I giovani, anche se potrebbero avere spiragli qui, tendono ad andare via. Qualche anno fa il flusso di persone si spostava a Londra, adesso a Milano. La demografia influisce a catena su tutto il discorso legato all’università, inevitabilmente. C’è necessità di trovare persone disposte ad investire, in tutti i sensi, al sud. Il Mezzogiorno è un punto di partenza, non di arrivo. Questo l’orizzonte su cui il Mezzogiorno gioca la sua sopravvivenza».

Storia politica: perché i giovani d’oggi si tengono così a distanza dall’agorà?

«Io non credo che ci sia distacco da parte dei giovani verso i partiti. Cambiano le epoche e cambia anche lo scenario. Viviamo in un tempo in cui la politica interessa poco. Per un periodo della nostra storia la politica è stata un’occasione di crescita sociale. Oggi lo è solo per fasce ristrette: chi si avvicina alla politica o ha forti motivazioni oppure lo fa perché ha maturato già esperienza. La politica non è più quella degli anni tra il ’50 e l’80. In quel trentennio, attraverso la politica, si realizzavano delle cose, oggi i medesimi obiettivi li ottieni tramite il web, viaggiando».

Cosa consiglia a chi vuole intraprendere il suo tipo di attività di ricerca?

«Crederci sempre, indipendentemente dai tutti i fattori».

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